Sappiamo tutti che c’è un “prima della diagnosi”, c’è una vita antecedente la malattia. Può essere bella, brutta, difficile: generalmente è una vita fatta di cosa belle e piacevoli e di momenti più difficili e preoccupazioni. Una vita normale.
C’è un durante, fatto di ospedale, esami, ansia, operazioni, terapie, fatica (anzi: fatigue, se parliamo di tumori, visto che esiste una forma di affaticamento specifica del paziente oncologico).
C’è un dopo?
Da un punto di vista prettamente clinico è difficile definire il dopo. Conosciamo bene i rischi di ricadute, recidive, la maggiori probabilità rispetto alla media di un secondo tumore, e poi gli anni di controlli, esami, visite, tutti vissuti con un più o meno ansia e timore. In genere, se tutto va bene, dopo cinque anni ci dichiarano in remissione, ma per dichiarare la guarigione passano molti anni in più. E poi vivere un tumore è un po’ come quando ci si scotta da bambini: impariamo che il fuoco brucia e non lo dimentichiamo più.
Da un punto di vista psicologico, umano, c’è quasi sempre un dopo: si cambia, inevitabilmente.
Una diagnosi difficile vuol dire essere costretti a ballare una musica che non ci piace e che non avremmo mai scelto. Però possiamo, e sta a noi, fare in modo che quel ballo diventi persino gradevole, sciolga muscoli irrigiditi da tempo, permetta di rimodellare il nostro mondo e noi stessi nella maniera che desideriamo e che è per noi più utile. In poche parole, e fuor di metafora, moltissimi scoprono di essere diventati più felici. Anch’io. E vi racconto come ho fatto nel libro Quattro passi in galleria.